Inauguro il mio blog con una breve riflessione sulla traduzione giuridica e sull’attività di comparazione giuridica.
È “azzardato” affermare che la traduzione giuridica possa essere considerata alla stregua di un’operazione di diritto comparato? A mio parere, è una constatazione oggettiva.
La traduzione giuridica implica costantemente un’attività di comparazione giuridica e chiama il traduttore a operare, di volta in volta, scelte consapevoli, a partire dalla cosiddetta “ricezione diretta”, ovvero dalla decisione di mantenere il termine o un’espressione nella lingua di partenza eventualmente accompagnati da una nota esplicativa, passando per la ricerca dell’equivalenza funzionale o il ricorso a una perifrasi, fino ad arrivare alla creazione di un neologismo (scelta comunque residuale in quanto “rischiosa”), facendo sempre attenzione a evitare “false” equivalenze nella lingua di arrivo. E questo accade anche se gli ordinamenti giuridici interessati, ovvero quello di cui il testo di partenza è espressione e quello in cui deve essere prodotto il testo di arrivo, condividono la medesima tradizione giuridica, e in ambiti del diritto in cui sembra esserci maggiore convergenza tra i concetti e gli istituti riferiti alle due lingue.
È chiaro quindi che un semplice dizionario, seppur specialistico, non è sufficiente per ottenere una traduzione giuridica adeguata e accettabile, bensì occorrono anche una puntuale attività di ricerca e approfondimento, a cui si aggiunge imprescindibilmente la conoscenza delle convenzioni linguistiche e testuali del testo di arrivo. Si tratta di competenze di cui il traduttore di testi giuridici a mio parere in primis, e il committente della traduzione poi, devono essere consapevoli.
Bibliografia:
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